Gennaio è il mese più freddo dell’anno a Rimini. L’inverno impacchetta i sensi e li ripone come si fa con gli abiti di cotone, in alto negli armadi, in scatole a righe. L’estate li tira fuori sgualciti e li mette al sole, davanti al mare. Sull’Adriatico di questa Rimini severa o briosa secondo le stagioni il 20 gennaio 1920 nasce Federico Fellini.
Figlio di papà Urbano, rappresentante di generi alimentari e di mamma Ida, casalinga originaria di Roma, quella Roma già città eterna, già sfondo da cartolina turistica internazionale, da sempre cuore della Chiesa e presto capitale italiana del Cinema.
L’infanzia è per Fellini il tempo degli archetipi antichi, della campagna, della terra e della vita semplice, della materia, dell’idea di morte, di eros.
Ma è anche il tempo dell’onirico, della magia e del sacro, luoghi vicini alla vita in campagna e alla scuola delle suore frequentata.
L’adolescenza sarà il tempo dei primi amori, del circo, degli scherzi, dei burattini, delle lunghe giornate davanti al mare con gli amici del Liceo Classico, prima palestra per il suo talento di ritrattista di soggetti e caricature.
Con i genitori e i fratelli, Riccardo e Maddalena, Federico si trasferì a Roma nel gennaio 1939. Sua madre lo voleva avvocato e si iscrisse a Giurisprudenza ma le preferì la scrittura. Ne fece strada e destinazione della sua esistenza scrivendo e disegnando per diverse riviste fino ai primi copioni e all’incontro con Aldo Fabrizi e Cinecittà.
Nel 1942 scrive anche l’incipit della storia d’amore della sua vita quando incontra l’attrice Giulietta Masina che sposa il 30 ottobre 1943. Un sodalizio sentimentale, sensuale e professionale che li privò dell’amore dell’unico figlio, Pier Federico, nato nel marzo 1945 e perduto dopo pochi giorni dalla nascita. Furono indissolubili nella vita e sul set. Giulietta è stata il femminile erotico e spirituale di Federico.
La vita di Fellini è vita poetica di frontiera. La esercita come atto di ribellione contro l’abito stretto del luogo comune e come un acrobata che sfida l’universo e le sue leggi, volteggia sulla modernità scardinando tutti i totalitarismi del Novecento, esaltati dalle ideologie dittatoriali, dai rigidi progetti dei governi del tempo, dal culto dell’ordine letto come sedazione dell’umano e dell’anima, involgarito da forme di vuoto esibizionismo.
Frontiera è quella tra due città, Rimini e Roma, tra la provincia e la capitale; è frontiera tra sensi e sovrasensibile, tra fascinazione per il circo e la sua bellezza grottesca, tra ambivalenza e verità, malizia e umanità, crudeltà e candore.
Frontiera è la scena, lo sono gli ingranaggi della Fabbrica dei Sogni di Cinecittà e del Teatro n°5. Frontiera è tutta la via felliniana dello sguardo che ha svelato al mondo, attraverso un surrealismo onirico, pittorico prima ancora che filmico, la storia italiana e l’anima umana, facendone un tratto universalistico. Un canone totale unico e un nuovo filone estetico e narrativo.
Saggi di pittura metafisica sono tutti i suoi lavori. Alza il velo sul voyeurismo e la tela delle illusioni nello Sceicco Bianco (1952), suo primo film già ricco di innovazioni tecniche e di linguaggio. L’Italia di provincia e il rifiuto dell’età adulta ne I Vitelloni (1953) sono approdo alla purezza dei puri nella struggente vita di Gelsomina, in La strada (1954), primo Oscar della sua vita. Seguiranno veri e propri esercizi di antropologia poetica (Il bidone, 1955); Le notti di Cabiria, 1957, per cui vinse il secondo Oscar; La dolce vita, 1959; Le tentazioni del dottor Antonio, 1961), in cui quello sguardo mai pago di meraviglia si muove come in una casa degli specchi per confondersi e ritrovarsi, tra le immagini e le contraddizioni del sacro, del liturgico, celebrando il grottesco, il magico, ricorrendo alla fantasia senza negare il razionale. […]
8 ½ (1963, terzo premio Oscar) è il metafilm per antonomasia. Un film che parla di film e di regia: nascita, crisi e catarsi di un regista, nella somma di morte, eros, ricordi d’infanzia, malinconia, sconfitta. Speranza in Giulietta degli spiriti (1965) che segue il percorso di indipendenza e consapevolezza di una donna. Film di frontiera tra il bianco e nero e il la prima pellicola a colori del regista. L’imprevisto come l’immediato sono occasione per nuove pellicole in stile documentaristico come accade in Block-notes di un regista (1963) e poi in I Clowns (1970).
L’occulto è Tre passi nel delirio (1968): le suggestioni di Edgar Allan Poe, il funebre, il mistery e l’ultraterreno si ritrovano prima del Fellini Satyricon (1969), opera carnale e sperimentale ambientata in una antichità quasi psichedelica, oggetto di censura, a cui seguirono il fortemente autobiografico Roma (1972) con i suoi ricordi di ragazzo di provincia che scopre la capitale e il quarto film premio Oscar Amarcord (1973), il nostalgico ritorno a Fellini bambino e alle atmosfere poetiche e ricchissime di volti, di sentimenti, di immagini eterne e universali, di parate e cortei, fermi in una dimensione da sogno e struggenti nella loro unicità ritratta nel quotidiano vivere della provincia.
Con Casanova (1976, Oscar per i costumi) l’esoterismo, l’eros, il sacro e le debolezze umane si intrecciano alle vicende del mito dell’amore che qui è reso nella sua vacuità umana, impalpabile e incapace di incidere nel fato.
Con i successivi Prova d’artista (1979), La città delle donne (1980), E la nave va (1983), Ginger e Fred (1985), Intervista (1988) e La voce della luna (1999), Fellini dimostra la sua unicità nella comprensione della modernità, con le sue oscene rigidità, con i suoi ampollosi totalitarismi costretti a creare cancelli, confini e divise. Vi oppone l’elogio della comprensione, della compassione, della speranza e della confusione intesa come spirito vitale che si ribella all’omologazione.